McCree cambia nome: sincero pentimento o operazione di facciata?
Tra i personaggi originari di Overwatch c’è un cowboy, armato di revolver, il cui nome è stato scelto in onore di uno degli sviluppatori del gioco: Jesse McCree. Nulla di male, si penserebbe: è una pratica comune nel mondo del gaming, da Activision Blizzard a Riot Games e altri publisher, prendere spunto da nomi comuni dei propri dipendenti, anche in una forma di riconoscimento del proprio lavoro. Eppure in questo caso è recentemente nato un problema perché Jesse McCree è uno dei dipendenti Blizzard coinvolti nello scandalo reso pubblico alcune settimane fa dalla California’s Department of Fair Employment and Housing.
La DFEH ha deciso di citare in giudizio Activision Blizzard per molestie sessuali e comportamenti inadatti sul luogo di lavoro. Tra le varie prove ci sarebbero numerose chat interne in cui i dipendenti, uomini, si scambiavano apprezzamenti più e meno spinti, a volte oltre il lecito, verso le dipendenti donne. Una chat nata durante una delle edizioni della Blizzcon in quella che è diventata famosa come la “Cosby Suite”. Tra i partecipanti anche Jesse McCree, appunto, già allontanato dalla stessa azienda.
Tuttavia non sembra essere l’ultima mossa di Blizzard che intende pulire il più possibile il proprio nome. Da qui la decisione di cambiare nome anche all’eroe di Overwatch, come annunciato ieri via social dall’account ufficiale del videogame: “Crediamo che sia necessario cambiare l’attuale nome dell’eroe McCree per avere un personaggio che rappresenti meglio la comunità a cui vogliamo rivolgerci e che vogliamo rappresentare.” Una domanda sorge a questo punto spontanea: è l’ennesima operazione di facciata dettata dalla pressioni esterne dell’opinione pubblica oppure c’è una reale volontà di cambiare le cose?
Come spesso accade la verità si trova in mezzo. Il mondo del gaming negli ultimi anni, tra vari scandali, ha dimostrato di non essere un mondo inclusivo a livello aziendale. Lavorare per i vari publisher è apparso alquanto complicato negli ultimi dieci anni, sia per le donne che per la varie categorie meno protette e rappresentate in minoranza. Ma anche per gli uomini: perché diverse testimonianze riportano di molestie e comportamenti non adatti anche nei confronti di uomini neo-assunti. Palpatine, allusioni, ammiccamenti: comportamenti da maschi dominanti che non possono più far parte di un luogo di lavoro, qualunque esso sia, e che devono essere condannati, oltreché eliminati dall’azienda stessa con accorgimenti vari, inclusi corsi ad hoc. Tali comportamenti non possono in particolare trovare posto in un mondo, quello del gaming, che si professa (verso l’esterno) inclusivo e aperto a tutti, senza discriminazioni.
Da qui la volontà chiara e riconoscibile delle aziende, Activision Blizzard inclusa, di volersi allontanare da determinate associazioni di idee e di presentarsi più “pulita” agli occhi della community di videogiocatori. Ma è altrettanto chiaro che si tratta anche di un aspetto puramente economico: rispondere alle richieste della community è doveroso per un publisher i cui maggiori entroiti arrivano proprio da chi gioca ai suoi titoli. A maggior ragione per un titolo come Overwatch in cui le entrate arrivano dall’acquisto di contenuti in-game come aspetti estetici, spray e loot-box. Essere sordi alla sensibilità della community verso determinati temi potrebbe spingere molti videogiocatori ad abbandonare il gioco ma anche, in modo più semplice, a non giocare più un personaggio che porta il nome di un personaggio scomodo: e se non lo si gioca più, non c’è nemmeno motivo di comprare le skin o altri contenuti a lui dedicati. Ed è proprio su questo aspetto che si incontrano le necessità economiche e sociali di un’azienda.
Nell’attesa di saperne di più, Blizzard sembra aver imparato la lezione sul chiamare i propri personaggi di fantasia con riferimenti a persone reali, annunciando che in futuro non capiterà più: “Ci penseremo due volte la prossima volta ad aggiungere riferimenti reali a contenuti futuri di Overwatch: il nostro obiettivo è creare un universo videoludico e narrativo totalmente distante da quello reale, senza fraintendimenti di sorta.” Un esempio? La nuova mappa che sarà presto rivelata si chiamerà Malavento: chissà a quale città, italiana, realmente esistente si riferisce.